Vincenzo Satta
Nuoro, 1937
Vive e lavora a Bologna. Dal 1966, anno della prima mostra personale a Bologna con presentazione di Andrea Emiliani, ha tenuto mostre personali e collettive in importanti spazi pubblici e prestigiose gallerie italiane e straniere.
Hanno scritto di lui, tra gli altri: Giovanni M. Accame, Francesco Arcangeli, Dede Auregli, Flavio Caroli, Piergiovanni Castagnoli, Claudio Cerritelli, Giorgio Cortenova, Fabrizio D'Amico, Gillo Dorfles, Andrea Emiliani, Walter Guadagnini, Rosalba Pajano, Marilena Pasquali, Marco Rosci, Dario Trento, Marisa Vescovo ecc....
Negli anni settanta Satta costruiva il suo spazio di superficie attorno a poche figure geometriche semplici: simboli o emblemi di quell’assolutezza che andava cercando. Erano rettangoli talvolta sormontati da una semisfera, così da evocare la figura di un grande portale; o semplicemente quadrati, cerchi, perfettamente inscritti entro, anzi al margine ultimo della cornice della tela.
Nessuna plasticità, nessun dettato chiaroscurale, nessuna tentazione prospettica ne insidiava la vocazione assoluta a scrivere le sagome caste di quelle figure lontane da ogni illusiva profondità. Figure dettate sulla superficie dalla lenta, quasi impercettibile variazione di un colore intriso d’un unico timbro e solo variato nel tono. Satta giungeva così, alla soglia della prima maturità, ad un traguardo di perfezione e di spoglia purezza difficilmente valicabile. Dai primi anni ottanta si apre un’altra stagione, che prosegue tutt’ora: nella quale l’ingresso del segno anima e movimenta la superficie pittorica. Il colore vi riprende una sua voce, un diritto di piena cittadinanza che non aveva avuto nel tempo precedente. E i rosa, i celesti, i gialli, governano le nuove immagini. Nelle quali però è ancora la luce a governare la composizione.
E' la luce, fermata al suo spegnersi, l'immagine più vera dell'opera di Satta.
Trattenere e conservare la luce sulla soglia del suo trapasso, scegliere, come Satta fa, il momento estremo in cui la luce e' ancora tale, significa puntare sull'attimo più difficile, ma estremamente pregnante di tutto il processo della pittura.
Da sempre Satta insegue questa grande, indistinta luce colorata e, soltanto quando questa meta sarà stata raggiunta, l'operazione creativa potrà dirsi conclusa per aver toccato l'astratta purezza, solo allora l'opera potrà iniziare a vivere e a restituire lentamente la quantità di emozione e la carica d'affetti che l'artista vi ha riversato.
Poco importa che il quadro sia pensato come una successione di bande regolari o sia immaginato come una folta crittografia, che la sua struttura, sempre rigorosamente astratta, appaia semplice o più elaborata: un risultato infatti non contraddice l'altro, ma tutti si completano vicendevolmente.
Una soluzione formale non e' superiore all'altra, ma solo diversa, e chi le fa diverse e' la differente qualità della luce che vi e' ritratta.
Nelle tele di Satta la luce che vi si diffonde non e' mai quella 'vista', non e' mai neppure quella ricordata; il suo variare e' modulato dal mutare della inclinazione sentimentale dell'artista, dal differente rapporto che di volta in volta egli intrattiene con l'opera che va pensando: questa luce non e' mai quella della natura ma e' la luce della pittura.
Nel 2008, nella mostra organizzata nelle sale del Palazzo Pretorio di Cittadella, presso Padova, espone le opere degli ultimi due decenni. Nel 2011 partecipa alla 54° Biennale di Venezia. Vive e lavora a Bologna.
Bibliografia:
L'Espresso, Volume 24, Roma, Editrice L'Espresso, 1978; Vincenzo Satta, Catalogo mostra Palazzo Massari, Ferrara, 1995; G. di Genova, Storia dell'arte italiana del '900: Generazione anni Trenta, Bologna, Ed. Bora, 2000;
Hanno scritto di lui, tra gli altri: Giovanni M. Accame, Francesco Arcangeli, Dede Auregli, Flavio Caroli, Piergiovanni Castagnoli, Claudio Cerritelli, Giorgio Cortenova, Fabrizio D'Amico, Gillo Dorfles, Andrea Emiliani, Walter Guadagnini, Rosalba Pajano, Marilena Pasquali, Marco Rosci, Dario Trento, Marisa Vescovo ecc....
Negli anni settanta Satta costruiva il suo spazio di superficie attorno a poche figure geometriche semplici: simboli o emblemi di quell’assolutezza che andava cercando. Erano rettangoli talvolta sormontati da una semisfera, così da evocare la figura di un grande portale; o semplicemente quadrati, cerchi, perfettamente inscritti entro, anzi al margine ultimo della cornice della tela.
Nessuna plasticità, nessun dettato chiaroscurale, nessuna tentazione prospettica ne insidiava la vocazione assoluta a scrivere le sagome caste di quelle figure lontane da ogni illusiva profondità. Figure dettate sulla superficie dalla lenta, quasi impercettibile variazione di un colore intriso d’un unico timbro e solo variato nel tono. Satta giungeva così, alla soglia della prima maturità, ad un traguardo di perfezione e di spoglia purezza difficilmente valicabile. Dai primi anni ottanta si apre un’altra stagione, che prosegue tutt’ora: nella quale l’ingresso del segno anima e movimenta la superficie pittorica. Il colore vi riprende una sua voce, un diritto di piena cittadinanza che non aveva avuto nel tempo precedente. E i rosa, i celesti, i gialli, governano le nuove immagini. Nelle quali però è ancora la luce a governare la composizione.
E' la luce, fermata al suo spegnersi, l'immagine più vera dell'opera di Satta.
Trattenere e conservare la luce sulla soglia del suo trapasso, scegliere, come Satta fa, il momento estremo in cui la luce e' ancora tale, significa puntare sull'attimo più difficile, ma estremamente pregnante di tutto il processo della pittura.
Da sempre Satta insegue questa grande, indistinta luce colorata e, soltanto quando questa meta sarà stata raggiunta, l'operazione creativa potrà dirsi conclusa per aver toccato l'astratta purezza, solo allora l'opera potrà iniziare a vivere e a restituire lentamente la quantità di emozione e la carica d'affetti che l'artista vi ha riversato.
Poco importa che il quadro sia pensato come una successione di bande regolari o sia immaginato come una folta crittografia, che la sua struttura, sempre rigorosamente astratta, appaia semplice o più elaborata: un risultato infatti non contraddice l'altro, ma tutti si completano vicendevolmente.
Una soluzione formale non e' superiore all'altra, ma solo diversa, e chi le fa diverse e' la differente qualità della luce che vi e' ritratta.
Nelle tele di Satta la luce che vi si diffonde non e' mai quella 'vista', non e' mai neppure quella ricordata; il suo variare e' modulato dal mutare della inclinazione sentimentale dell'artista, dal differente rapporto che di volta in volta egli intrattiene con l'opera che va pensando: questa luce non e' mai quella della natura ma e' la luce della pittura.
Nel 2008, nella mostra organizzata nelle sale del Palazzo Pretorio di Cittadella, presso Padova, espone le opere degli ultimi due decenni. Nel 2011 partecipa alla 54° Biennale di Venezia. Vive e lavora a Bologna.
Bibliografia:
L'Espresso, Volume 24, Roma, Editrice L'Espresso, 1978; Vincenzo Satta, Catalogo mostra Palazzo Massari, Ferrara, 1995; G. di Genova, Storia dell'arte italiana del '900: Generazione anni Trenta, Bologna, Ed. Bora, 2000;
